Incognita e innovazione sono due facce della stessa medaglia

Pur costituendo gli ingredienti essenziali dello sviluppo economico però, quasi mai le banche si fanno coinvolgere in settori inesplorati, rispetto ai quali non si hanno dati certi.
Ciò rende necessario l’intervento di fonti di finanziamento alternative, in grado di assumere e gestire ampi margini di indeterminatezza. Un ruolo, questo, di cui si fanno carico spesso i venture capitalist nei confronti delle startup, considerando che queste ultime scontano un tasso di fallimento del 75%.
Cosa sono i venture capital?
I capitali di ventura, di cui si occupano le SGR (Società di Gestione del Risparmio), sono destinati a progetti che, pur avendo un esito impossibile da ipotizzare a priori, potrebbero generare guadagni di portata rilevante. Così, anche un solo exit, ovvero la liquidazione integrale o parziale della quota detenuta, garantisce profitti tali da coprire le perdite connesse a pregressi investimenti.
Fattori cruciali per motivare i venture capitalist a finanziare una startup sono la qualità della squadra di lavoro, l’estensione del mercato, e un vantaggio competitivo già acquisito dal bene/servizio offerto. I settori di maggior interesse sono le biotecnologie, healthcare e nutrizione, e le reti neurali.
I venture capital intervengono sia nelle prime fasi di vita della startup (seed) che in uno stadio successivo, partecipano al direttivo dell’impresa, e frequentemente mettono a disposizione della stessa il proprio know-how e la propria rete di contatti.
In linea di massima l’investimento ha un ciclo di vita di 3-5 anni, al termine del quale si procede alla smobilizzazione (exit), volta, come anticipato, a massimizzare il risultato.
Quale metodo seguono?
I venture capital sono finalizzati alla raccolta di investimenti da parte di una vasta platea di attori, tra cui istituti di credito, assicurazioni, fondazioni bancarie ed enti pubblici.
Dopo aver raggiunto l’importo indicato nel business plan, il venture capital procede alla sua collocazione in base ai criteri precedentemente fissati (“età” della startup, mercato di riferimento).
Che succede quando il venture capital decide di uscire?
L’exit implica la cessione delle quote della startup detenute, e, in pratica, coincide con il disinvestimento.
La procedura può compiersi in due modi: tramite vendita sul mercato azionario, e quindi mediante ingresso in Borsa, o cedendo il pacchetto azionario a un imprenditore o a un operatore finanziario.
Ti stai chiedendo quali sono i venture capital italiani più interessanti? Ne parleremo nel prossimo articolo
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Su tutti svetta il danese Jesper Buch che, nel 2000, in una piccola città nel nord Europa, ha fondato quello che sarebbe diventato il gruppo Just Eat, leader mondiale nel settore della consegna a domicilio del cibo. Il dinamismo (fisico e soprattutto mentale) è la cifra peculiare del suo percorso, umano e professionale.
Paola Bonomo ha invece ottenuto nei mesi scorsi una doppia consacrazione, essendo stata eletta Business Angel Italiana dal Club degli investitori di Torino e Business Angel Donna in Europa.
Estremizzando, si potrebbe parafrasare così lo slogan di un celebre spot di fine anni Novanta, per sintetizzare il rapporto tra startup e business angels.
L’aggettivo informale suggerisce una delle peculiarità di questa figura, ovvero il fatto che, mal si adatta a descrizioni assolutamente esaustive e/o definitive, come pure a classificazioni granitiche. Teoricamente infatti, chiunque voglia può operare in veste di business angel; entrare in un’associazione costituisce un’opzione, e non un requisito obbligatorio.
Italian Angels for Growth ha circa 200 soci, e questi investono mediamente tra 250mila e 1 milione di euro durante l’early stage (primo periodo di vita di un’impresa), che corrispondono a una partecipazione compresa tra il 20 e il 40%. Gli ambiti privilegiati sono il digital, il biomedicale e l’elettronico.