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Banchi di solidarietà: un pacco alimentare può rompere il muro di silenzio della povertà

Vivere in una società liquida significa fare i conti, ogni giorno, con il concetto di precarietà

Banchi-di-SolidarietàL’instabilità permea ogni aspetto, gravando, a volte come una zavorra, sulle nostre azioni. Una delle conseguenze più macroscopiche dei continui equilibrismi a cui siamo costretti  è rappresentato dalla scomparsa di confini e discrimini netti,  perfino tra concetti dicotomici, tecnicamente contrapposti. 

Lavoro/disoccupazione, benessere/indigenza erano un tempo situazioni identificabili con chiarezza, per cui ciascuno riusciva facilmente a definire sé stesso, collocandosi da un lato o dall’altro della “barricata”. Oggi ciascuna di queste condizioni presenta una quantità incredibile di gradazioni e sfumature, e ciò rende difficile riconoscere e identificare il disagio, materiale ed emotivo, come pure impegnarsi per combatterlo, anche avvalendosi dell’aiuto altrui. 

Povertà nascosta, dolore palpabile … e conseguenze a volte eclatanti

Banchi-di-SolidarietàCadere nel vortice dell’indigenza, oggi, è un rischio da cui pochissimi possono considerarsi davvero immuni. Perdita del lavoro, fine del matrimonio con annessi strascichi legali, e traumi psicologici sono solo alcuni dei fattori – magari combinati – che fanno piombare singoli individui o intere famiglie in una condizione di bisogno estremo. Spesso sono gli insospettabili, quelli che finiscono per non potersi permettere neanche di comprare il pane, o dover andare alla Caritas per avere un pasto caldo. La chiamano povertà nascosta, un malessere corposo e perdurante che il pudore, l’amor proprio e l’orgoglio impediscono di esprimere e condividere con il mondo esterno. Così, si finisce per soffrire due volte: la solitudine è benzina sul fuoco del dolore…e può portare a gesti radicali e irrevocabili, richieste d’aiuto che suonano chiare e ineludibili più di qualunque parola.

Banchi di Solidarietà, un impegno concreto

La Federazione dei BdS è una rete di associazioni che operano sul territorio per contrastare materialmente le situazioni di povertà. Queste si occupano dello smistamento di cibo messo a disposizione dall’industria e dalla grande distribuzione a individui e nuclei familiari impossibilitati a far materialmente fronte alle spese di prima necessità.

Ispirata all’insegnamento di Don Luigi Giussani, la rete dei Banchi di Solidarietà si articola in centinaia di  associazioni dislocate sul territorio nazionale, con diverse migliaia di volontari. 

Chi aiuta chi?

Banchi-di-SolidarietàI Banchi di Solidarietà raccolgono beni alimentari e, tramite i volontari, spesso organizzati in coppia, li distribuiscono a chi non può permettersi di acquistarli. L’incontro innesca un meccanismo di scambio umano che va anche al di là del semplice trasferimento di beni di prima necessità. Così, possono nascere anche rapporti di amicizia destinati a durare nel tempo. 

L’animo di ciascuno è irripetibile  e peculiare, ma esistono dei meccanismi di “funzionamento” comuni a tutti. Ad esempio, la spinta spontanea ad aiutare chi versa in una condizione peggiore della nostra. Si crea perciò un circolo virtuoso in cui veniamo “ricompensati” dal supporto offerto attraverso la gratitudine e la consapevolezza di esserci resi utili, dando un senso al nostro tempo. 

Dare un volto a problemi e situazioni difficili che non ci toccano direttamente affina la nostra sensibilità. Nutre quella pianta rara chiamata empatia, e ci mette davanti alla consapevolezza, dolorosa ma fondamentale, che povertà e solitudine sono virus per cui non esiste un vaccino capace di garantire l'immunità. Nulla ci darà la certezza di esserne esenti a vita; c’è solo una cosa che possiamo fare: assaporare le gioie del quotidiano, per quanto piccole, anche a dispetto degli ostacoli da superare. 

 

Francesca Garrisi     

Quando le cose non mi divertono, mi ammalo  (H.B.)

 

 

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Co-living: quando i condomini, oltre il sale, si scambiano anche le idee

L’uomo è un animale sociale, eppure è innegabile che, quando si ritrova costretto a condividere gli spazi vitali con estranei, la vicinanza forzata possa far emergere i suoi lati peggiori.

Un esempio su tutti? I condomini, dove la contropartita legata al risparmio economico è rappresentata spesso da una quotidianità scandita da rivalità più o meno sotterranee, piccole e grandi scaramucce,  e compromessi non facili da mandare giù.

Tuttavia, in anni recenti il co-working ha preparato il terreno e aperto la strada a nuove forme di condivisione degli spazi vitali, che confluiscono sotto la denominazione di co-living. Un’esperienza, questa, che recupera e mescola modelli abitativi anche diversi tra loro, tra cui il campus universitario, l’albergo e l’ostello.

Perché il co-living?

ColivingI fattori che hanno determinato la nascita del fenomeno sono molteplici: su tutti, l’aumento degli affitti, la necessità di bilanciare il rapporto tra le ore lavorative e quelle dedicate alla vita privata, e la sempre minor propensione ad acquistare immobili.

Come si articola uno spazio di co-living?

La peculiarità è rappresentata dal fatto che al suo interno sono integrati molteplici servizi complementari. In genere, si tratta di residenze dotate non solo di una connessione wi-fi e di aree comuni in cui lavorare, ma anche, ad esempio, di una lavanderia e un parcheggio. Così è possibile lavorare senza doversi muovere fisicamente, e avendo a portata di mano tutto ciò che è necessario nella quotidianità.

Le società che lavorano nel campo del co-living di solito propongono contratti di affitto brevi e flessibili, caratterizzati da tariffe forfettarie che includono locazione, utenze e pulizie.

Quando è nato il co-living?

Co-living-dueIl fenomeno è comparso per la prima volta negli Stati Uniti; tra i primi soggetti a fiutare le potenzialità del settore sono state startup come Pure House e Common.

“Il nostro target non è costituito soltanto da nomadi digitali e freelancer, ma anche da persone che svolgono lavori caratterizzati da una routine più stabile e regolare”. A parlare è Brad Hargreaves, fondatore di Common, società di co-living con sede a Brooklyn nata a seguito della sua esperienza in General Assembly.

Brad Hargreaves ha deciso di lanciarsi in questo settore dopo aver notato che molti studenti di General Assembly dovevano confrontarsi con un problema pressante, ovvero, trovare una sistemazione per frequentare i corsi. Così, la prima residenza di Common ha accolto venti di loro.

“Il co-living piace perché consente ai giovani professionisti di sentirsi parte di una community in cui ci sono anche altri creativi. Le parole d’ordine sono confronto e collaborazione, e possono essere declinate senza limiti legati allo spazio o al tempo”. Così Ryan Fix (Pure House).

E l’Italia?

Il co-living ha mosso i primi passi a Roma, nel quartiere Trastevere. Correva l’anno 2013 quando Ernesto Cinquenove, di ritorno da un periodo negli USA, fondò Together, il primo “cross-inspirational place that feels like home”.

Co-living-tre“Together si propone di essere una casa aperta a tutti. Un luogo in cui si può fare quello che si fa in una casa, e dove i residenti fissi possono incontrare quelli occasionali. Questo spazio può essere fruito anche da chi vive altrove, ma intende proporre un’attività e mettere a disposizione le proprie competenze in uno specifico settore. Promuoviamo l’incontro tra community locale e community globale sviluppando una rete internazionale composta da operatori dell’arte, dell’innovazione e di Internet”.

L’esperienza in breve tempo è decollata, e così a ottobre 2014 è nato un secondo co-living, Garden.

A Bologna, invece, una case history felice è quella di Lambanda, immobile situato in via della Braina dove risiedono 16 inquilini distribuiti su tre piani. L’artefice di tutto è stato Vincenzo Rizzuto, che, dopo essersi trasferito dalla Calabria, ha pubblicato un annuncio su Facebook. Il suo obiettivo era quello di incontrare persone con cui condividere tempo, conoscenze e momenti di riposo.

La popolazione di Lambanda è estremamente variegata: tra gli altri ci sono infatti ingegneri, giardinieri e fisarmonicisti. Perfino le famigerate riunioni di condominio qui assumono un sapore diverso: lo scaricabarile è bandito, perché le attività da svolgere vengono suddivise in base alle competenze. L’assunto di fondo è che, se ognuno dà un contributo a seconda di ciò che sa fare, probabilmente sarà più contento … così non avrà più pretesti per lamentarsi. 

Francesca Garrisi     

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Non buttare il cibo avanzato. Se lo doni, ci guadagni

Quante volte, dopo una cena con amici, hai guardato la tavola ancora ricolma e hai pensato che buttare via tutto sarebbe stato un reato? 

Legge-Sprechi-AlimentariFinora però, la soluzione più pratica da adottare era porzionare e surgelare, o costringersi a consumare le stesse portate per un numero indefinito di giorni. Oggi, invece, donare le rimanenze a chi ne ha bisogno è più semplice … e premia, grazie alla legge contro gli sprechi alimentari.

Il nostro Paese è il secondo, su base europea, a dotarsi di una normativa in materia. Prima di noi solo la Francia, che però ha scelto un approccio fondato sul sanzionamento: chi spreca cibo va incontro a multe e a un periodo di detenzione; contestualmente, è stato previsto un obbligo da parte degli esercizi commerciali a donare l’invenduto agli indigenti.

Combattere gli sprechi alimentari: come?

Legge-Sprechi-AlimentariLa legge italiana mira a promuovere l’esemplificazione burocratica e offrire incentivi a chi, tra privati e imprese, si dimostrerà solerte nell’impiego delle eccedenze di cibo. In quest’ottica è stata esplicitata la definizione di spreco alimentare (=la totalità di prodotti usciti dalla filiera agroalimentare ma comunque ancora fruibili) e di eccedenze alimentari (=beni che risultano invenduti per varie ragioni, tra cui il fatto di essere esteticamente difettosi e di avere una data di scadenza ravvicinata).

La normativa individua inoltre differenze sostanziali tra termine minimo di conservazione (=la data entro cui il prodotto mantiene le sue proprietà peculiari)  e scadenza (superata la quale ingerire il cibo sarebbe pericoloso). Non c’è l’obbligo di donare, ma chi vuole può farlo anche oltre il periodo per cui i cibi garantiscono le proprie caratteristiche specifiche, a patto che l’imballaggio sia integro e vengano assicurate ben precise condizioni ambientali.

Il pane, ad esempio, può essere devoluto entro 24 ore dalla produzione, e i farmaci , se l’etichetta è sbagliata , a patto che le irregolarità non abbiano a che fare con la data di scadenza o la presenza di allergeni. Vai al ristorante? Puoi portare via ciò che non hai mangiato grazie alla family bag.

Legge-Sprechi-AlimentariCiò che non può più essere consumato può essere donato per il sostentamento degli animali e per altri utilizzi, come il compostaggio.

Cosa ci guadagni a devolvere?

Privati e aziende di buona volontà potranno usufruire di una riduzione sulla tassa legata ai rifiuti, in rapporto al quantitativo di prodotti donati, previa certificazione della cessione stessa.

L’auspicio è quindi quello di innescare un circolo virtuoso, invertendo la rotta del consumismo sfrenato  in cui siamo immersi. Per riuscirci però, è necessario che la legge entri a regime. In tal senso sarà fondamentale il ruolo delle Regioni: tocca a loro, infatti, definire linee guida e regolamenti di attuazione. 

 

Francesca Garrisi     

Quando le cose non mi divertono, mi ammalo  (H.B.)

 

 

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