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“Spettro spettro delle mie brame, come si convive con te in questo reame?”

S. ha 4 anni.
Lo vedo girare senza sosta nel suo girello.
Continua ad agitarsi e piangere.
Poco dopo lo “liberano” dal girello e lui resta seduto a terra.
Per un attimo si acquieta. Poi comincia a dimenarsi per togliere le sue scarpette ortopediche.
Resta scalzo e gattona rapido.
E’ nervoso. Ad ogni tentativo di una terapista di avvicinarsi ed attirare la sua attenzione lui comincia a piangere e gridare.
Lo vedo, in preda ad una forte crisi, colpirsi il viso. Fermarlo sembra impossibile. Ha una forza che sembrerebbe innaturale per un bambino di soli 4 anni.
L’operatrice non riesce a contrastare la sua foga e si becca qualche ceffone in pieno viso; lui prende a colpirsi con le sue scarpette.
Ma la terapista non demorde e pian piano S. si tranquillizza.
Di lì a poco lei gli strapperà una smorfia appena accennata di approvazione offrendogli dei biscotti. E’ molto goloso lui.
 
Ricordo questa scena con molta chiarezza. Era il primo giorno di tirocinio e mi affacciavo ad un mondo così complesso e con così tante sfumature che coglierle tutte è pressappoco inimmaginabile.
S. è affetto dallo spettro autistico.
 
La parola autismo ha derivazione greca. La radice autòs indicava sé stesso.
La denominazione autismo viene utilizzata la prima volta da Bleuler volendo indicare il ripiegamento su sé stessi degli adulti affetti da schizofrenia. Fu poi Kenner nel 1943, analizzando i sintomi di 11 bambini, a parlare di una vera e propria sindrome.
In linea generale tali sintomi interessano l’area delle interazioni sociali, il linguaggio (verbale e non verbale), il comportamento, l’attenzione, l’interesse, l’immaginazione.
Ad oggi però, è ancora talmente ampio il campo che non è semplice averne una definizione chiara e unitaria. Il DSM V parla di disturbo dello spettro autistico indicandone i diversi livelli di gravità che si possono presentare.
In genere i sintomi si palesano poco prima dei tre anni ma potrebbero essere colti dei segnali già nel primo anno. Possono riguardare di solito la comunicazione e/o una difficoltà di contatto emotivo. Tuttavia, come già accennato, le variabili possono essere talmente tante da non permettere una diagnosi semplice e unitaria.
 
Ancora non definite le cause che possono portare alla comparsa del disturbo.
Ci sarebbero delle componenti genetiche e, studi recenti, avrebbero identificato delle anomalie nel cervello da chi è affetto da tale sindrome nelle aree della corteccia; il che farebbe pensare a possibili problematiche sviluppatesi durante lo sviluppo fetale.
Al di là di indagini e studi, che restano ancora senza riposte definitive, ciò che è certo è che queste persone si inseriscono in contesti sociali con estrema difficoltà e spesso restandone comunque isolati.
 
Utili sono tutti gli approcci terapeutici che puntano a migliorare la socialità del bambino autistico e la cooperazione delle famiglie al fine di rendere più efficaci gli interventi di specialisti del settore. Importante è anche portare le proprie esperienze al servizio degli altri. La conoscenza è l’unico strumento che può permettere dei miglioramenti in questo sì ampio mare di complicazioni.
Ricordo inoltre che qualche giorno fa è stata approvata alla camera, con 296 a favore e 6 contrari, la Disposizioni in materia di diagnosi, cura e abilitazione delle persone con disturbi dello spettro autistico e di assistenza alle famiglie.
 
In estrema sintesi la legge si articola in tre punti fondamentali: 
1. Aggiornamento ogni tre anni delle linee guida di prevenzione e cura sia per l’infanzia che per l’adolescenza che per l’età adulta;
2. Inserimento dell’autismo nei Livelli Essenziali di Assistenza (ovvero garanzia delle prestazioni sanitarie);
3. Promozione della ricerca sia a livello biologico e genetico (per identificarne le cause) sia sociali e riabilitativo (per supportare pazienti e relative famiglie nel raggiungere una stile di vita più “normale” possibile – il virgolettato va sottolineato).
 
 
È un primo passo importante. 
Credo fosse ora che tutto ciò che riguarda questo complesso mondo parallelo fosse preso in considerazione.
Parlo di mondo parallelo poiché autistici - e relative famiglie- vivono in una realtà speciale e sono persone speciali. Vivono difficoltà che non si possono nemmeno provare ad immaginare ma lo fanno con una forza ed una determinazione tali da meritare una stima infinita. 
Ritengo che il mondo debba cominciare a riconoscere loro questa grandezza ed ascoltare le loro voci per riuscire quanto meno a rendere meno ripida questa salita quotidiana. 
Siamo talmente attenti ad occuparci dei nostri “grandi problemi” che non ci rendiamo conto quanto, per qualcuno, anche imparare semplicemente ad allacciare le scarpe possa trasformare una giornata di lotta qualunque nella più luminosa gioia della vita.
 

 

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Fuga verso i sogni

Renzo Piano disse: «i giovani dovrebbero partire per curiosità,non per disperazione»,eppure quanti ragazzi in cerca di un occupazione lasciano il proprio paese per giungere in un altro dove probabilmente le possibilità di lavoro sono maggiori? Fin troppi, ma il punto è che molto spesso,specie nel nostro paese,non c’è altra scelta. 

Ogni giovane ormai è come ossessionato dal timore di «restare disoccupato»,così tanto che è influenzato nelle sue scelte per quanto riguarda il percorso di studi. Ma è eticamente giusto? Perchè ai nostri giorni un ragazzo non può neanche sentirsi libero di perseguire i propri sogni? È come se in un certo senso non potessimo neanche permetterci di riempirci la testa di quegli obiettivi, di quei progetti, che normalmente chiunque dovrebbe possedere, perché in una società come la nostra, in un tempo come il nostro, possono essere addirittura considerati «utopici». Ma un uomo senza utopia, è un uomo perso, perciò è necessario lottare per ciò che si vuole, per ciò che si desidera, fino alla fine. 

Può anche essere considerato da folli intraprendere un percorso di studi,che fondamentalmente non garantisce nessun tipo di futuro in ambito lavorativo, ma deve essere fatto ugualmente, purchè ognuno di noi possa procedere secondo la proprie passioni,le proprie «vocazioni». Che senso avrebbe ritrovarsi un giorno, con un lavoro «sicuro» dal punto di vista economico, ma che dentro di noi non muove nulla? Il lavoro deve essere passione, deve essere gratificazione,tutti fattori che probabilmente il compenso economico ci garantisce,ma non basta per determinarli. Perciò sì, probabilmente richiede già coraggio intraprendere una formazione scolastica,che si basi su quelli che sono i nostri «sogni», anche se siamo a conoscenza che l’impatto con la realtà sarà disastroso, e con la realizzazione dei nostri «ipotetici progetti» probabilmente non avrà nulla a che vedere. Eppure c’è chi questo coraggio lo possiede, perché bisogna sempre inseguire i propri sogni,e tutto ciò che di difficile le nostre stesse scelte possono comportare,sarà affrontato,con la consapevolezza di aver tentato, e di non aver mai rinnegato, perseguendo i nostri sogni, e quindi, il nostro stesso essere. Molti sicuramente non saranno d’accordo con ciò che scrivo poichè in questo periodo di crisi economica non c’è spazio per i sogni, e proprio questo rende necessario lasciare il proprio paese e cercare di realizzarli altrove. 

Spesso a partire, non sono soltanto i giovani in cerca di un’occupazione degna della loro preparazione, ma anche semplicemente chi non trova impiego nei lavori più «semplici» che richiedono una minore qualificazione. Ad ogni modo la situazione reale è questa, può essere analizzata, criticata sotto ogni prospettiva, ma per chissà quanto resterà tale. Dunque bisogna agire,bisogna partire,fuggire verso luoghi che non ci facciano rinnegare i nostri sogni, e solo dal momento in cui sono stati realizzati, possiamo tornare.

di Carlotta Longombardo

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Regista, attore o comparsa. Che ruolo hai nella tua vita?

«Capitano tutte a me. Non me ne va bene una. Sono proprio sfortunato». Diciamolo:  a volte proviamo quasi un sottile compiacimento, nel pronunciare frasi del genere. Quasi fosse un mantra, ripetendole con ostinata convinzione, finiamo per crederci. Il “bombardamento” produce persuasione, come insegna la pubblicità.
 
Ma quanto c’è di vero in pensieri come questi? Siamo solo vittime di quello che il caso decide di farci piovere addosso?  A volte può essere difficile capire fino a che punto quel che ci succede, nel privato e nel lavoro, è “farina del nostro sacco”. E in un Paese come l’Italia, che raramente premia il merito, la convinzione che tutto dipenda dal “fattore C’è difficile da sradicare, non solo nell’uomo medio.  
 
D’altra parte, il concetto di “fortuna” è quanto di più fumoso esista. Di cosa si tratta, in concreto? Il puro e semplice caso, il classico “essere al posto giusto al momento giusto”, le conoscenze, o un mix di tutte queste cose? Probabilmente sì. Pensare che basti un po’ di faccia tosta e qualche contatto ben piazzato a “svoltarci” la vita può essere anche un modo per deresponsabilizzarci. Non ci piace faticare, vorremmo tutto e subito. Eppure le cose importanti costano sudore, impegno, sforzo, cura ...e investimento. In tutti i sensi.
 
Definire il talento, comunque, non è meno difficile. Sicuramente si tratta di un “quid”, una scintilla creativa. Quell’attitudine speciale che rende unico ciascuno di noi, ma che, non basta per “vivere di rendita”. Bisogna infatti coltivarlo, accudirlo, “perderci” del tempo, perché dia i suoi frutti. Come il contadino che prepara il raccolto alla prossima semina. Il rischio che il proprio tesoro finisca invaso da erbacce è altissimo. Ma solo noi possiamo impedire che succeda.
 
Insomma, “la fortuna non esiste: esiste il momento in cui il talento incontra l'occasione”, avrebbe detto Seneca. O, parafrasando il più contemporaneo Titta De Girolamo de Le conseguenze dell’amore,  “la sfortuna non esiste. È un’invenzione dei falliti... e dei poveri”. 
 

 

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