racconti di vita

I racconti di chi ha cambiato vita ✌

Morsi di panzerotti a Brooklyn: l'idea vincente di Vittoria e Pasquale

Venti posti a sedere, tre tavoli, un sofà e qualche poltrona in quel di Smith Street.

panzerotti bitesObiettivo? Portare un po’ di Puglia negli States. Vittoria Lattanzio e Pasquale De Ruvo hanno aperto a Brooklyn, uno dei più famosi quartieri newyorchesi, il Panzerotti Bites, un angolo di Sud dove si può gustare in tranquillità uno dei prodotti di punta della cucina barese. 

Lei di Bitonto, lui di Ruvo, la tenace coppia ha deciso più di un anno fa di cambiare vita e trovare l'America, non solo metaforicamente, a colpi di mozzarella, sugo e farina.

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Panzerotto, una tasca di soffice bontà

panzerotti14L’idea è arrivata dopo anni di duro lavoro in Puglia, Vittoria sui libri di Lingue straniere all’università di Bari e Pasquale grazie all’esperienza dietro il bancone di un bar.

Nonostante sforzi, impegno e dedizione però i risultati o tardavano ad arrivare o erano sempre al di sotto delle loro aspettative.

Così, valigie alla mano, si sono messi in viaggio. Nei loro bagagli? Una buona idea e qualche strumento 2.0 per farla conoscere al mondo intero.

Contando su alcuni parenti di Vittoria, da tempo residenti in America, i due giovani imprenditori hanno potuto usufruire di un percorso di accompagnamento e startup imprenditoriale. Hanno così fatto un’attenta analisi di mercato, costi, opportunità e rischio, sviluppando il loro piano marketing con coscienza e cognizione di causa.

Perché la scelta del panzerotto? Dopo un’attenta analisi, i due imprenditori si sono resi conto che il succulento rustico era uno dei prodotti culinari che mancavano in un quartiere così ricco di specialità esotiche.

E ci hanno visto giusto. Il panzerotto ha suscitato subito l’interesse della stampa newyorchese, che ha descritto lo snack a metà tra una crepe francese e una empanada spagnola, definendola "una tasca di soffice bontà".

American panzerotti, dal salato al dolce

panzerotto dolceLe materie prime per i panzerotti americani arriveranno tutte dall’Italia, grazie a una serie di accordi con i fornitori nostrani, in particolare pugliesi.

Il menù di Vittoria e Pasquale comprende, oltre ai classici panzerotti mozzarella pomodoro e origano, varianti alla carne e al pesce e sperimentazioni con funghi, olio di tartufo, salmone e avocado.

Sono previste anche le versioni dolci, con nutella e ricotta, e impasti al caffè e al cocco che, forse, non verranno particolarmente apprezzati dai puristi. Eppure, tutte le scelte, dal menù all’arredamento del locale, sono state pensate per venire incontro ai gusti e alla sensibilità dei clienti americani.

La cucina è a vista, così tutti i clienti potranno osservare con i loro occhi con quali ingredienti e come vengono preparati i panzerotti.

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Puglia al 100%

panzerotti bites12L’atmosfera pugliese si vive però con tutti e cinque i sensi, grazie a un murales che Vittoria e Pasquale hanno fatto realizzare nel giardino esterno del loro locale: un’iconografia in cui si riconoscono alcuni simboli della Puglia, come trulli, fichi, taralli e l’immancabile San Nicola.

E siccome ogni prodotto culinario è anche un prodotto culturale, Vittoria e Pasquale hanno preparato persino un cartello per spiegare «How to eat a panzerotto» a regola d’arte.

Nel primo minuto, «bisogna solo sentire l’odore». Dopo due minuti, siccome il panzerotto è ancora troppo caldo, bisogna dare solo un morso, sporgendosi in avanti di 15 gradi. Dal quarto minuto in poi, si può partire all’attacco, cambiando l’angolo di 45 gradi per evitare di scottarsi. E, naturalmente, si mangia con le mani, niente forchetta e coltello.

Nonostante il successo della loro attività, che ha resistito anche alla pandemia, i due giovani imprenditori non negano di sentire la mancanza di casa ("della lavatrice, dei balconi e della pennichella" spiegano sui social), ma restano convinti di essere sulla strada giusta.

Una strada che punta al franchising, con la Puglia nel cuore e i panzerotti nello stomaco.

irene caltabiano

 

di Irene Caltabiano

 

 

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Da Salerno a New York. Ecco la storia di Piero Armenti

Piero Armenti, nato nel 1979, è un imprenditore e un urban explorer a New York.

Piero ArmentiProva a rispondere ad una domanda che riceve praticamente ogni giorno e con un lungo articolo in cui spiega le ragioni che lo hanno spinto ad andare via dall'Italia. 

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Il punto è che eravamo smarriti. Vagavamo nei corridoi dell’Università di Salerno, con la sensazione che tutto sarebbe stato troppo difficile. Volevi fare l’avvocato? Ma ce ne sono troppi. Il Magistrato? Ma il concorso è difficile, notaio non ne parliamo proprio. Il giornalista? Impossibile. Concorsi pubblici? Sono sempre meno. Questo è il clima di sfiducia se nasci in una città del Sud Italia, con la sensazione perenne che tutto ti sarà precluso, e la consapevolezza che dal futuro è meglio non aspettarsi granché. Pagavamo anche uno scotto familiare. Senza una famiglia importante alle spalle, non c’era la minima possibilità di successo. L’unica fiammella accesa era la bravura e il talento, con la sensazione che non sarebbe stato sufficiente, almeno non nella terra in cui sei nato. 

universitàEravamo migliaia a studiare all’Università di Salerno, negli anni ’90, molti studenti venivano dalla Calabria e dalla Basilicata, tantissimi a Giurisprudenza nella speranza di una tanto desiderata ascesa sociale.

Mi sono sempre chiesto le ragioni di tale afflusso sproporzionato, e ne ho trovate due, che sono una cantilena che si ripeteva di famiglia in famiglia. “Giurisprudenza ti apre più porte”, dicevano tutti così, nell'illusione che i concorsi pubblici avrebbero assorbito tutti. E poi l’idea strampalata, tipica della provincia, che laurearsi in Giurisprudenza ti dava un certo status, per cui al bar ti chiamavano avvocato, e tu ti sentivi felice. Le altre lauree, tipo Lettere o Scienze delle comunicazioni, non erano la stessa cosa. Vivevano una strana stigma sociale, come fossero percorsi facili per gente poco intelligente.

Le ragioni di questo mito di “Giurisprudenza” sono semplici. 

Nel Sud Italia, soprattutto negli anni successivi al boom economico, chi non era emigrato, aveva trovato riscatto sociale grazie al posto nella pubblica amministrazione. Avere due stipendi da impiegato statale a Salerno (o in Calabria, in Basilicata) significava vivere discretamente, quindi i genitori proiettavano sui figli questa loro “percezione” e li spingevano a studiare Giurisprudenza, che è la laurea per eccellenza dei concorsi pubblici.   

Si pensava che sarebbe stato così per sempre, anche se nel frattempo i concorsi pubblici diminuivano, e dopo gli anni ’80 il grosso debito pubblico aveva chiuso i rubinetti della pubblica amministrazione. Ma la percezione, si sa, conta più della realtà, e ci porta a fare scelte sbagliate.

Ma c’è una questione ancora più importante, che fa parte del nostro immaginario di provincia. In una città piccola come Salerno l'élite non era formata dagli imprenditori o capitani d’impresa, ma dall'avvocato, il magistrato, il notaio, il politico, o da dirigenti pubblici. Quindi a quello si aspirava, e per arrivare a quello c’era una sola laurea possibile: Giurisprudenza. 

Quindi mettiamola così: studiavi legge e se ti andava bene diventavi élite cittadina, tipo un avvocato, oppure qualche concorso pubblico prima o poi l’avresti vinto. Si ragionava così, anche se sapevamo non era assolutamente così, perché tutto stava franando attorno, e lo sentivamo.

E gli imprenditori? Perché non era tra i nostri desideri fare impresa? Uno Stato vessatorio ci aveva fatto percepire gli imprenditori e i commercianti come mezzi criminali. In una città piccola come Salerno gli imprenditori veri erano troppo pochi per essere centrali nel dibattito cittadino. 

Che io mi ricordi, ai miei tempi, l’unica impresa degna di nota era la pasta Antonio Amato che tra l’altro fallì. C’erano invece tanti commercianti, di cui si parlava sempre in maniera dispregiativa: gente incolta, grossolana che evadeva le tasse. 

In un clima di terrore imprenditoriale, non emergeva proprio la voglia di fare impresa, in famiglia non te lo diceva nessuno. Né i genitori, né gli zii, né i cugini, né i nonni. Mia mamma voleva facessi il magistrato, mia nonna il medico. Stop.  Perché assumersi il rischio imprenditoriale per poi esser trattato male, essere vessato di tasse che avrebbero dovuto mantenere il grande carrozzone pubblico? Meglio un concorso pubblico, e uno stipendio fisso. Ora è diverso, con i social siamo a contatto con realtà lontane, si è aperta la mente. 

Ma prima, ai miei tempi, l’unica realtà che conoscevamo era il centro di Salerno e il nostro quartiere, era l’inizio e l’origine del nostro mondo, insieme alla Tv e ai giornali di Roma e Milano.  E in quel contesto era totalmente assente la cultura imprenditoriale, al punto che io la possibilità di fare l’imprenditore l’ho scoperta solo arrivando a New York, prima non ci avevo mai pensato. Occhio e croce non sapevo neanche cosa fosse un’impresa.

Ma il problema più grave era culturale: l’individuo era degradato a mero meccanismo della società. Nella scelta dell’Università, infatti, non interessava a nessuno cosa ci piacesse fare veramente, perché bisognava esser concreti e Legge era la cosa più concreta possibile. 

Chi eravamo noi? Quali erano le nostre inclinazioni? Questa cosa era semplicemente non degna di nota. Altrimenti forse avrei studiato altro, non Giurisprudenza.  Anche il rapporto con la ricchezza era contraddittorio, certo aspiravamo a migliorare la nostra situazione economica, ma ci interessava di più avere le ferie pagate, le malattie, orari di lavoro, e la sicurezza di non esser licenziati.

A cosa serviva spezzarsi la schiena dodici ore al giorno, per un sogno. E poi troppa ricchezza veniva vista con un misto d’invidia, sospetto, al punto che se uno dal nulla aveva fatto i soldi, non c’era nessun termine positivo per indicarlo, se non “cafone arricchito”. 

Insomma fare troppi soldi era, in un modo o nell'altro, quasi peccato. Anche in questo caso mi son chiesto perché, visto che negli Stati Uniti non è così, e ho trovato questa risposta: dipende dalla radicata cultura cattolica (cattocomunista) che era egemonica all'epoca della nazione liberata dal fascismo, e aveva sempre ritratto la ricchezza e il denaro come qualcosa di cui diffidare, diabolico, in fin dei conti da allontanare come il maligno, salvo poi desiderarlo in gran segreto.

Perché tutti, nessuno escluso, dentro di sé custodiva un desiderio di ricchezza. Ma bisognava essere ipocriti: fare le cose di nascosto, non ostentare troppo per non suscitare invidia. Bisognava fingere che le cose andavano perennemente così e così, altrimenti venivi visto male. Bisognava, in fin dei conti, non essere mai troppo felice della propria vita.

Questo è il clima in cui ho vissuto, quello in cui non c’era alcuna speranza, e per evadere mi rifugiavo nella letteratura, nello studio, e nell’illusione che esistesse un posto lontano, immaginario, in cui i miei sogni sarebbero diventati realtà, e dove magari avrei potuto scrivere un romanzo ed essere pubblicato da una casa editrice importante. Poi questo posto l’ho trovato, e si chiama New York. 

New York è stata una rivelazione, perché finalmente per la prima volta sono venuto a contatto con un ambiente diverso, che ha rivoluzionato il mio modo di pensare. E pian piano, giorno dopo giorno, con i tanti esempi che vedevo da vicino, mi ha convinto che anche io, ragazzo vissuto tra i libri a Pastena, potevo cambiare il mio destino, e da persona formata per essere un impiegato pubblico, potevo diventare qualcosa di diverso, far emergere la mia individualità con passioni, inclinazioni e difetti. 

New York mi ha insegnato il bello della società dei consumi, a liberarmi dal senso del peccato cattolico, ad esser felice senza dover nascondermi,  e cosa più importante: mi ha insegnato a fare impresa, a costruirmi il futuro con le mie mani in una terra dove non conta di chi sei figlio, perché nessuno è figlio.

di Lucio D.
blogger per caso

 


 

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Cambiare vita? Anticitera, l’isola greca che ti paga vitto e alloggio

Scappo su un'isola deserta

anticiteraQuanti di noi, oberati dai ritmi quotidiani e schiavi del tempo che non riusciamo mai a controllare hanno giurato che, se solo potessero trasferirsi su un’isola deserta, non ci penserebbero due volte a mollare tutto e cambiare la propria vita?

Ma quanti di noi lo farebbero davvero?

Per gli amanti di pace e tranquillità o per chi ha un debole per le occasioni da cogliere al volo arriva dalla Grecia un’offerta a cui sarà difficile resistere.

anticiteraAnticitera è una piccola e pressoché disabitata isola che si trova nel sud del Peloponneso.

Vivere con 350 euro al mese? Prova in Costa Rica o nelle Filippine

Il luogo, noto per aver ospitato il più antico calcolatore meccanico conosciuto (il Meccanismo di Antichitera, considerato un primissimo esempio di computer), ha una memoria storica importante e per questo si possono ammirare meraviglie come il castello, l’antica città fortificata, rovine, mulini e altro.

Ma c’è di più: a renderla unica è anche la sua bellezza naturale. Scogliere, grotte, calette e naturalmente mare meraviglioso oltre che natura selvaggia e incontaminata.

Un vero e proprio paradiso naturale rimasto tale perché non molto frequentato.

Non male no? E se qualcuno vi proponesse di trasferirvi lì, offrendovi 500 euro al mese per tre anni, più casa, appezzamento di terra da coltivare?

Scommetto che pochi resterebbero indifferenti all’offerta.

Come mollare tutto e trasferirsi in paradiso senza farsi ingannare dal serpente

Un paradiso da popolare

anticitera12L’isola, pressocché disabitata è infatti alla ricerca di nuove famiglie per ripopolare il luogo, invogliando nuovi residenti a trasferirsi sull’isola, offrendogli tutto il necessario per ambientarsi al meglio e crearsi una vita sull’isola.

Un’esperienza surreale ma unica nel suo genere perché nell’isola non c’è molto: solo un paese, Potamos, fatto di casette bianche, vicoli ripidi e stretti, dove vi sono solo un paio di taverne e qualche bottega. Il tutto per un totale di quaranta abitanti, nessun turista all’orizzonte… e nessun bambino.

Vero, sa molto di film… eppure, per chi fosse disposto a fare un salto nel vuoto e un “tuffo nel blu”, affrontando tutte le conseguenze della scarsa urbanizzazione, questa occasione potrebbe davvero cambiarti la vita.

isola grecaL’isola infatti, è un ottimo punto di partenza per lanciare una nuova attività (proprio perché così poco conosciuta) generando un business esclusivo.

Dunque, lo fareste?

C’è già qualche coraggioso lanciatosi in questa impresa?

La risposta è sì: al momento sono quattro le famiglie che si sono prenotate ma i posti sono ancora numerosi.

È proprio il caso di dire che questa potrebbe essere l’occasione perfetta per dare una svolta a chi sogna di cambiare vita…. Una di quelle occasioni, da prendere al volo!

magda mangano

 

di Magda Mangano

Sognatrice di mari azzurri

 

 

 

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