racconti di vita

I racconti di chi ha cambiato vita ✌

Borbakery, la dolcezza è un linguaggio universale

Dolci ricordi

Tutti noi, soprattutto in un Paese in cui i piaceri della tavola sono un rito, conserviamo memoria olfattiva e visiva legata a pietanze e manicaretti.

Quanti associano, per esempio, le polpette al sugo alla nonna ai pranzi in famiglia della domenica? Oppure i panini al burro con il prosciutto cotto alle feste di compleanno di quando si era bambini?

Determinate sensazioni molte volte hanno più peso di quanto pensiamo sulla definizione del nostro io e dei nostri sogni. 

Chissà se Serena Venola, se non avesse passato tutto quel tempo a osservare la mamma che preparava dolci e leccornie, avrebbe comunque aperto il suo Borbakery, laboratorio di pasticceria il cui nome è un gioco di parole tra il termine inglese e il luogo in cui ha aperto i battenti: la Val Borbera, nel cuore del Piemonte. 

Partire per ritornare

Come abbiamo spesso riscontrato nelle storie di cambiamento, anche questa è legata a un viaggio, un tentativo inizialmente non andato a buon fine che si è rivelato essere una semplice anticamera del vero progetto di successo.

I dolci, infatti, non sono l’unica passione di Serena. Dopo essersi laureata in Lingue e letterature straniere all’Università degli Studi di Genova e aver insegnato in alcune scuole private, parte alla volta della Grecia per aprire insieme al compagno, un ristorante italiano a Samos.

Leggi anche:«Torno nella mia città e apro un forno sociale.» La storia di Irene

Nonostante la chiusura dopo appena sei mesi, si può ben dire che tutto serve nella vita. In quel frangente, la ragazza raccoglie il bagaglio imprenditoriale necessario per dar vita a Borbakery.

La scelta della location è semplice. La casa della nonna, anni prima, era una pasticceria. Perché allora non restituirla agli antichi profumi, tra farina, uova e lievito?

Borbakery, la dolcezza come linguaggio universale

«Durante i miei viaggi all’estero le pasticcerie più rinomate sono sempre state la mia tappa fissa e, una volta tornata a casa, ho sempre cercato di replicare i dolci che più mi avevano colpita documentandomi, acquistando libri in lingua originale, guardando video e tutorial» ha raccontato Serena alla rivista online L’Italia che cambia.

La zelante pasticcera è riuscita quindi a miscelare in una ricetta vincente le sue diverse competenze, assorbendo segreti e curiosità anche dalla tradizione dolciaria di altre cucine. 

Peraltro, il lavoro come interprete in diversi corsi di cake design con docenti provenienti da altri paesi le ha consentito di cogliere molto anche dell’aspetto più decorativo dei dolci.

Tuttavia, il legame tra le delizie di Borbakery e il territorio non è presente solo nel nome. Vengono infatti utilizzati molti prodotti locali, come olio extra vergine, vino, uova e frutta secca. 

Il cavallo di battaglia sono i canestrelli al Timorasso, un vino bianco valborberino. Oppure c’è anche la versione al vino rosso e nocciole e i canestrelli stagionali con zucca, mandorle e cioccolato. E poi una vera chicca: i Borbaci, ovvero una versione esclusiva dei celebri biscotti, con caramello, nocciole Piemonte IGP e cioccolato bianco caramellato.

Un vero successo per un’altra giovane italiana che ha avuto il coraggio di rischiare e di ripartire dal via. 

 

 

di Irene Caltabiano

 

 

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«Torno nella mia città e apro un forno sociale.» La storia di Irene

Non solo “south working” 

irene_contiAlzino la mano quanti di voi, particolarmente in questi ultimi anni “pandemici”, si sono sentiti instabili, precari, con sempre meno certezze di fronte a sé.  

Qualche articolo fa avevamo parlato del fenomeno del south working. 

Ma tale concetto non riguarda in effetti solo il Sud, ma ha assunto le dimensioni di una corrente nazionale, con tantissimi ragazzi che, dopo aver girato in lungo e in largo, hanno ritenuto che fosse meglio “ripassare dal via”.  

Ancora meglio se fanno dietro front dopo un bagaglio di esperienze accumulato vivendo in varie parti dell’Europa e del mondo. 

Una di loro è Irene Conti, sorriso dolce e sguardo vivo, che dopo varie esperienze e un bel po’ di gavetta, ha scelto di dare vita al forno sociale “Da madre ignota”, nella sua Emilia.  

Tornare a casa e aprire un forno 

Siamo a Bologna, città dove io stessa ho lasciato un pezzo di cuore, luogo non certo estraneo a iniziative di stampo sociale e comunitario. Ed è proprio qui che nei prossimi mesi aprirà “Da madre ignota", il forno da cui Irene ha intenzione di diffondere i valori del cibo genuino ed etico.  

Il nome è curioso ma altro non riguarda che “la pasta madre”, da cui nascono tutti i prodotti realizzati. La dicitura “ignota” si rifà invece tutte le variabili che entrano in gioco durante la creazione di un prodotto artigianale e il fatto che ogni filone sfornato è in qualche modo unico, data la continua ricerca di un equilibrio nel miscelare gli ingredienti.  

Ma come è arrivata Irene a dare vita a un'attività tutta sua? Dopo aver studiato Urbanistica e Pianificazione del territorio, svolge diverse esperienze fuori dall’Italia. La scintilla però, a quanto pare, scocca durante un Servizio Volontario Europeo di sei mesi in un centro di permacultura croato, che si occupa di promozione ambientale. In quella piccola comunità, Irene impasta e cuoce ogni giorno il pane per tutti e scopre essere un’attività che le piace parecchio. 

Così, dopo una vendemmia in Francia e il cammino di Santiago, capisce che è arrivato il momento di apprendere un po’ di tecnica e lo fa a Colle Val d’Elsa, dove viene istruita da Giovanni e Rosa, una coppia di esperti panificatori, all’arte dei prodotti da forno. 

Fare esperienza negli eco-villaggi 

A questa prima esperienza si unisce quella svolta alla Rete Italiana dei Villaggi Ecologici, dove durante il raduno della rete europea, Irene, insieme all’amica Martina, impara molto velocemente a giostrarsi tra impasti e tempi di attesa. Affrontato anche questo step, è il momento di mettersi alla prova “in prima linea”. 

All’eco-villaggio Ciricea, la coppia di amiche fa il pane per tutti il sabato e la domenica, con consegna a Pistoia e Bologna. Un’ulteriore conferma della volontà di vivere di quest’attività. 

«È stata un’esperienza impegnativa, con la sveglia alle quattro di mattina e il rientro a casa, dopo le consegne, a notte fonda, ma anche piena di gioia. Di quella fase ho apprezzato soprattutto le sperimentazioni con Martina, i pasticci, la ricerca condivisa di un equilibrio fra gli ingredienti» ha raccontato la ragazza in un’intervista a “L’Italia che cambia”. 

Un forno per tutti 

paneCon l’arrivo della pandemia e del lockdown, le esperienze comunitarie vengono irrimediabilmente bloccate. Irene però non si perde d'animo ma ne approfitta per prendere l’iniziativa e aprire finalmente il proprio forno.  

Trova infine uno spazio comunale per ospitare il proprio progetto e vince il bando per allestire la sua attività.  

Un amico falegname sta costruendo la madìa che verrà utilizzata per sfornare pane, biscotti, cracker, grissini per tutte le comunità autogestite e per i mercati locali. 

Ma la vera novità che Irene vorrebbe introdurre è consentire ai soci e alle persone del quartiere di entrare nel suo forno e cuocere ciascuno la propria pagnotta, così da trasformare “Da madre ignota” non solo un posto dove creare qualcosa di buono ma nel quale costruire relazioni e rafforzare la comunità.   

 

di Irene Caltabiano 

 

 

 

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Haki Doku: una nuova vita in sedia a rotelle tutta tenacia e guinness dei primati

Il modo in cui percepiamo noi stessi influenza profondamente il rapporto con la realtà circostante

L’immagine di noi stessi può infatti essere ponte che ci avvicina agli altri, o barriera che separa e/o – illusoriamente – protegge.

Haki-Doku-Formica-ArgentinaChi si dimostra in grado di rovesciare una situazione proibitiva scaturita dalla malattia, estraendone, come da un cilindro, opportunità impreviste e risorse emotive fino a quel momento inesplorate, rappresenta una calamita. Una miniera di vitalità e un modello cui ispirarsi. Un esempio che risulta autentico, vicino, e, al tempo stesso, realisticamente applicabile.

La storia di Haki Doku dimostra che passione e costanza sono gocce cinesi in grado di sgretolare anche i più pervicaci pregiudizi sulla disabilità. Specularmente, l’uomo è la prova lampante che talvolta l’ostacolo più grande tra noi e la felicità sono gli alibi a cui ci aggrappiamo per non metterci in gioco e rompere lo schema falsante confortevole delle abitudini.

Un incidente è stato lo spartiacque tra il “prima” e il “dopo”

Haki-Doku-Formica-ArgentinaNel 1997 Haki Doku, 50enne albanese trapiantato in Italia, ha dovuto fare i conti con la paraplegia (paralisi degli arti inferiori). Lo sport è stato il grimaldello che gli ha permesso di scardinare gli stereotipi sulla disabilità, e dare senso ai cambiamenti che questa ha provocato. Non solo ha preso parte a svariate maratone accanto a normodotati, ma ha anche conseguito il Guinness relativo alle gare lungo le scale dei grattacieli. A Wolfsburg (Germania) ha infatti percorso 2688 gradini in un’ora, scendendo per venti volte otto piani.

Haki Doku ha spiegato con potere di sintesi disarmante la nuova stagione della sua vita. La corsa, racconta, lo ha aiutato a conoscere sé stesso, le proprie passioni e risorse, e svincolarsi dall’etichetta di disabile. Le scale lo hanno invece “sfidato” a sviluppare coraggio e tenacia: nessuna caduta è definitiva, finché si è motivati a riprovarci.

Il potere dell’immedesimazione

Nel 1998 Haki Doku trascorre un periodo presso il centro riabilitativo di Costa Masnaga (Lecco), e questa esperienza gli fornisce i primi, rudimentali ma essenziali, strumenti per rendersi autonomo. Impara infatti a scendere e salire i gradini, azione solo apparentemente banale, considerando quanto possa essere proibitivo, per un disabile, avere a che fare con un ascensore guasto.

A distanza di tempo, dopo aver letto un articolo sull’atleta paralimpica Francesca Porcellato, l’uomo decide di correre la mezza maratona Stramilano insieme a normodotati. Così, utilizza la sua carrozzina non omologata e rifiuta di indossare i guanti per spingere le ruote. L’obiettivo di Haki è fare esperienza anche fisicamente della gara, far “assaggiare” al corpo la fatica, così come gli atleti accanto a lui.

Haki-Doku-Formica-ArgentinaSeguono dieci maratone all’estero e il Guinness World Record all’Arena Civica di Milano, percorrendo circa 120 km in 12 ore. Un evento, questo, realizzato dal Camperio Business Center, presso cui Haki Doku lavora dal 1999. Nel 2012, a Londra, è il primo atleta paralimpico a rappresentare l’Albania.

L’appetito vien mangiando, e così comincia a interessarsi al Tower Running, specialità in cui l’obiettivo è salire il più velocemente possibile le scale degli edifici più alti. Cimentarsi con essa non è stato facile, soprattutto inizialmente, in quanto è necessario destreggiarsi tra la forza di gravità che spinge verso il basso, la velocità, e l’equilibrio da mantenere su due delle quattro ruote.

La felicità, per Haki, è un campo da curare quotidianamente. Si allena infatti ogni sera: cinque chilometri di riscaldamento sotto casa, e quindi i 17 piani del palazzo dove vive, da percorrere per circa 10 volte. Moglie, figli e colleghi, compatti al suo fianco, sono i suoi primi fan.

Il prossimo obiettivo? “Conquistare” il Burj Khalifa (Emirati Arabi), la torre più alta al mondo, percorrendo 160 piani in un’ora.

Malattia e disabilità possono fagocitare, se si permette loro di colonizzare i pensieri e monopolizzare le energie. Sforzarsi di coltivare ciò che si ama nonostante le oggettive, materiali, difficoltà è l’unico modo per sottrarsi al perverso meccanismo dell’(auto) commiserazione.

 

Francesca Garrisi     

Quando le cose non mi divertono, mi ammalo  (H.B.)

 

 

 

 

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