Si attende una legislazione sulla gig economy
La Gig Economy comincia a farsi strada anche nell’ambito legislativo: negli ultimi mesi, le forze politiche sia nazionali che locali hanno concentrato parte delle loro energie per affrontare il tema per la tutela dei gig workers.
Ci si chiede a che punto siamo e se si inizierà a poter definire questo settore in modo lungimirante, considerando che -secondo gli ultimi dati Inps- non richiama soltanto la fascia di giovani lavoratori. Al contrario, sono proprio gli adulti ad aver trovato la salvezza in questo nuovo modo di impiegare la propria professionalità, adattandosi al momento storico che stiamo vivendo.
I dati Inps indicano la necessità di una legge sulla Gig Economy

L’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale individua nelle fasce d’età più adulta la vera ricchezza della gig economy: la maggiorparte dei lavoratori si attesta sopra i 29 anni e sfrutta questi impieghi come secondo lavoro o come cuscinetto per sopperire a periodi di disoccupazione.
Sono dati incoraggianti, ma per certi versi allarmanti: questo perché non esiste ancora una regolamentazione specifica e moderna al punto da tutelare i gig workers e di dare regole certe per le aziende digitali che investono in questo settore.
In tal senso, si rischia che ci sia il far west; e, a pagarla, sarebbero i lavoratori che sono disposti a paghe misere pur di guadagnare qualcosa in modo onesto: si parla di una media di circa 350-400 Euro, salari troppo ribassati a fronte di spese e incombenze tali da mettere in seria difficoltà un’intera fascia che ha avuto il coraggio di reinventarsi in quest’epoca digitale.
Infatti, il dato che spinge gli esponenti politici a sentire un obbligo verso questa categoria di lavoratori è che molti di questi sono impiegati nella gig economy con un solo impiego.
Le normative sulla Gig Economy che possono far prosperare il settore
Se in Italia sono 23 milioni i lavoratori e i gig workers sono attestati tra i 600.000 e il milione di impiegati, con circa 150/200.000 di costoro concentrati con quest’unica occupazione, bisogna fare in modo che le leggi possano essere a favore di persone già svantaggiate da questo sistema ancora osteggiato da guadagni bassi e poca proliferazione del fenomeno.
Sempre l’Inps ha reso pubblico un elenco con 50 società legate alla gig economy che, nel 2017, hanno dichiarato di non avere dipendenti (ben ventidue tra queste, quasi la metà), altre 17 hanno complessivamente quasi 700 lavoratori, 11 hanno attivato quasi 300 contratti subordinati e oltre 1.800 a collaborazione continuativa non subordinata.
Ci sembrano numeri davvero troppo bassi per poter fare stime realistiche. Viene da sé da pensare che una mancata legge sul tema non permetta ai lavoratori un inquadramento corretto, alle aziende di procedere nel pieno rispetto dei gig workers e dello Stato che perde finanze da un settore che potrebbe portare maggior ricchezza nelle casse pubbliche, per riuscire ad attivare manovre utili a incentivare e far prosperare la gig economy.
Ne risulta un’analisi piuttosto dura, che si spera possa servire a contribuire ad affrontare il discorso e spingere verso la direzione di una legislazione chiara e produttiva.

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