Quando si tratta di cibo, non badiamo a spese
Piuttosto, si può dire che scialacquiamo, acquistando più di quanto ci serve. A tratteggiare l’immagine del nostro Paese è l’Osservatorio Waste Watchers, spin off dell’Università di Bologna. Un dato spicca su tutti: ogni anno finisce nella pattumiera un quantitativo pari a 16 miliardi di prodotti commestibili, quantitativo che corrisponde all’uno per cento del prodotto interno lordo.
Ogni giorno, ciascuna famiglia dà “per spacciati” 600 grammi di cibo; lo scorso anno erano in media 50 grammi in più, che equivalgono a 8,4 milioni di euro: quest’anno siamo a quota 8.
I risultati non scaturiscono da metodi di calcolo ufficiali e codificati, piuttosto dalla somministrazione di questionari che, in qualche modo, sono connessi a “un’autovalutazione”. La percezione del singolo, comunque, presenta dei limiti: non a caso, quattro famiglie su cinque pensano che il maggior spreco alimentare sia imputabile alla grande distribuzione.
Tuttavia, forse anche in concomitanza della crisi, le famiglie italiane si sono date un metodo, ovvero compilano in modo sistematico la lista della spesa. Contestualmente, hanno cominciato ad educare anche i più piccoli a evitare di sprecare cibo commestibile. Dà i primi segni di cedimento il tabù del cibo scaduto: nell’80% dei casi, se è appena trascorsa la data indicata sulla confezione, prima di buttare l’alimento se ne controlla lo stato.
Ma quali sono le principali motivazioni per cui si spreca cibo? Quasi nella metà dei casi capita perché si compra più di quanto si consuma, in un quarto dei casi perché non si è capaci di conservare, e nel 10% dei casi circa perché si viene “conquistati”da promozioni e marketing.
L’Osservatorio Waste Watchers lavora da anni sistematicamente sul tema, e il suo impegno è culminato con l’approvazione di una legge che prevede premi e sgravi per le imprese che devolvono alimenti ammaccati ma in buono stato.
Anche la Fondazione Banco Alimentare Onlus opera attivamente in questo campo, coordinando la Rete Banco Alimentare dislocata sul territorio. L’organizzazione si occupa di recupero delle eccedenze e redistribuzione alle strutture caritative, promuovendo le Collette Alimentari non solo tra i privati cittadini, ma anche nelle imprese. La pratica del dono innesca un circuito virtuoso, in quanto fa sì che le strutture supportate possano concentrarsi sull’esercizio della propria mission.
Iniziative come queste, che pure sono lodevoli, colpiscono essenzialmente per un motivo: acquistano risonanza su vasta scala solo in occasioni sporadiche e particolari. Come se le buone prassi, il consumo consapevole e la redistribuzione virtuosa rappresentino buone azioni a cui destinare solo un giorno all’anno.
Al contrario, gestire con oculatezza e coscienziosità gli acquisti alimentari dovrebbe diventare la norma, dovrebbe essere un obiettivo a cui, realisticamente, tendere tutti. Per arrivarci, è necessario “lavorare” in profondità sull’opinione pubblica, modificando la distorta immagine del concetto di “abbondanza” che molti di noi hanno. L’idea secondo cui meglio avere il superfluo piuttosto che rischiare di lasciare insoddisfatto un bisogno è pericolosa, e andrebbe sostituita con l’assunto per cui bisogna concentrarsi unicamente sul necessario. È questo il primo passo verso l’equità sociale … e ambientale.



Sono loro, infatti, a dispetto di luoghi comuni populisti e rigurgiti xenofobi, che sostengono (anche letteralmente) gli italiani che non lavorano più. Questo, in breve, il risultato che emerge dal Rapporto Annuale sull’Economia dell’Immigrazione stilato dalla Fondazione Leone Moressa.
La Stranieri Spa, così è stata definita coniando un’espressione assai efficace, vale circa 130 miliardi di euro (la Fiat ne vale 136), che equivalgono alla 25esima posizione nella lista delle imprese mondiali più grandi.Indubbiamente cospicua la mole di contributi prodotta: si arriva infatti a 11 miliardi, che si traducono in 7 miliardi di Irpef. Gli immigrati pagano la pensione a 640mila italiani.Spesso gli immigrati sono piccoli e medi imprenditori: lo scorso anno erano più di 600mila, originari principalmente di Marocco, Cina e Romania. Le aziende superano le 500mila, che equivalgono al 9% del totale. Si è registrata una sensibile crescita negli ultimi quattro anni (+21%), a fronte di un calo di quelle nostrane (-3% circa).
La Stranieri Spa opera principalmente nell’ambito dei servizi, però il campo in cui si registra la maggior incidenza sul Pil è quello della ristorazione. Gli immigrati, complessivamente, producono in Italia quanto il comparto tedesco legato alla realizzazione di veicoli, eppure, la produttività per occupato è sensibilmente inferiore (50mila a fronte di 135mila).Ciò si spiega con il fatto che, se è vero che un immigrato su due lavora (contro il 36% di italiani), nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di occupazioni poco o per nulla qualificati. Attività, insomma, che non richiedono una particolare specializzazione o peculiari abilità.
Inoltre, sensibilizzare sul tema della scolarizzazione delle generazioni di immigrati più giovani consentirebbe di preparare futuri lavoratori dotati di maggior professionalità e competenze, il che avrebbe un duplice effetto positivo: li renderebbe più soddisfatti della vita in Italia consentendo un migliore inserimento sociale, e aumenterebbe la produttività. Insomma, “aiutare” gli stranieri a formarsi e trovare un’occupazione in Italia avrebbe ricadute positive per tutti. Ferma restando l’importanza di adeguate misure di collocamento professionale anche per i giovani italiani.


