Lavorare 2.0

Vivere all’estero: tutto quello che c’è da sapere per trasformare un bisogno in sogno

Lasciare l’Italia. Dare una svolta alla propria vita, un taglio netto da cui ripartire

Per alcuni, soprattutto giovani, è un desiderio, per altri, magari in là con gli anni, può rappresentare una necessità, a volte “l’ultima spiaggia” dopo un periodo relativamente lungo trascorso a cercare un’occupazione in patria. In quest’intervista  Stefano Piergiovanni, fondatore di Vivi all'estero.com, si rivolge a tutti loro, dando spunti, consigli e anche dritte utili a superare quello che in molti sottovalutano.  Il primo colloquio di lavoro.

Quali sono i principali problemi con cui si confrontano, gli italiani, e che li spingono a cercare fortuna all’estero?

La maggior parte degli italiani che si rivolgono a me per potersi trasferire e trovare lavoro all’estero lo fanno perché non riescono più a trovare un lavoro in Italia. Il motivo principale che mi ha spinto a creare questo sito era quello di aiutare le persone a vivere un’esperienza nuova e diversa, ma purtroppo la maggior parte di chi mi contatta lo fa perché non riesce più a trovare lavoro nella nostra nazione.

Quando e come è nato Vivi all'estero.com?

Viviallestero.com nasce il 1 Settembre 2009 da una mia idea. All’epoca lavoravo in Irlanda, cominciavo a ricevere diverse richieste di consigli da amici e conoscenti su come avessi trovato lavoro all’estero, così mi venne in mente di creare una pagina dove inserire tutte queste informazioni. Col tempo la pagina è cresciuta ed è diventata uno dei punti di riferimento per gli italiani che vogliono trasferirsi all’estero.

Di cosa si occupa il sito?

Principalmente di offerte di lavoro e consigli per trasferirsi all’estero.

Quali sono le caratteristiche della presenza di italiani all’estero? Quali i Paesi e le professioni in cui si concentrano?

Le nazioni più ricercate sono il Regno Unito (più che altro per la capitale Londra) e l’Australia. Le professioni più ricercate sono quelle che riguardano la ristorazione, soprattutto perché molti si trasferiscono con una bassa conoscenza della lingua e nel settore della ristorazione possono avere qualche opportunità ugualmente.

Quali invece potrebbero essere le professioni più “attrattive” nel futuro prossimo?

Il settore che sta offrendo e offrirà molte opportunità in futuro è quello informatico: sviluppatori, gestione reti, gestione clouds e tutto ciò che gira attorno all’informatica ad un livello medio/alto.

Quali gli errori più comuni degli italiani che cercano lavoro all’estero?

Gli errori più comuni sono quello del partire con un basso livello della conoscenza della lingua (inglese soprattutto) e quello del sottovalutare l’importanza di come ci si presenta ai datori di lavoro e alle agenzie di recruitment. Molte persone non hanno un CV vincente o addirittura con errori gravi. Non dimentichiamo pure il fatto che all’estero vengono utilizzati dei modelli per il CV ben diversi da quello utilizzato in Italia. Se i lettori volessero una revisione del CV, possono contattarmi all’indirizzo email admin@viviallestero.com inserendo nell’oggetto “CV estero”.

Tra le tante storie che hai raccontato, ce n’è una che ti ha colpito in positivo?

La storia più positiva che spesso racconto è quella del Signor Paolo, 46 anni, disoccupato. Aveva perso il lavoro da poco tempo e non riusciva a trovare niente nel suo settore (commerciale) in Italia. Era abbastanza disperato. Con i miei consigli l’ho convinto ad iscriversi ad un corso di inglese e ad un corso di cucina di buon livello. Ora lavora vicino Leeds come aiuto cuoco, si è creato una nuova vita e mi ringrazia ogni giorno. 

 
 
 


 
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Fare carriera? No grazie, preferisco vivere!!!!

Nasce a Berlino il primo centro per il rifiuto della carriera

Ci insegnano che bisogna lavorare non solo per vivere ma mirando alla carriera e con la costante ossessione di dover migliorare se stessi.

Ma chi l’ha detto che debba essere necessariamente così?

Produciamo beni e servizi perché ne abbiamo realmente bisogno o solo perché possano tramutarsi in profitto? 

E la nostra vita? 

Intendo quella vera,fatta di amicizie, amore, passioni e tempo libero che fine fa? Siamo costretti a sacrificarla di continuo in nome della carriera. 

Queste ed altre considerazioni sono state fatte da Alix Faßmann quando, circa due anni fa, decise di abbandonare il suo lavoro di giornalista e addetta stampa per la SPD (il partito socialdemocratico tedesco) e di intraprendere un viaggio chiarificatore in Sicilia. 

Durante questo viaggio ha poi incontrato Anselm Lenz, autore teatrale presso l’Hamburger Spielhaus (uno dei teatri più prestigiosi di Germania), anche lui stanco di una vita fatta solo di carriera che si era appena licenziato ed era partito alla volta dell’Italia.

Fu così che nel 2014 Lenz convinse Faßmann a raggruppare tutte le idee che aveva in mente e di scriverle in un libro dal titolo Arbeit ist nicht unser Leben: Anleitung zur Karriereverweigerung (Il lavoro non è la nostra vita: guida al rifiuto della carriera).

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Il centro

Poco tempo dopo aprirono il centro Haus Bartleby per il “rifiuto della carriera” che si pone come obiettivo quello di elaborare spunti critici verso la società tardocapitalistica e le sue modalità di lavoro.

Il nome del centro si ispira ad un romanzo il cui protagonista lavora come copista presso uno studio legale di Wall Street ma ad un tratto, dopo un periodo di attività intensissima, si rifiuta di continuare la sua ottundente mansione pronunciando la celebre frase I would prefer not toche è appunto lo slogan del centro berlinese.

Questo centro raccoglie professionisti provenienti da tutti i settori che vogliono distruggere l’assunto in base al quale carriera e successo determinano necessariamente il valore di una persona.

Ispirato ad una filosofia marxsiana anticapitalistica il centro considera il lavoro di oggi come: “una malattia” . 

Il problema è rappresentato dalle troppe ore di lavoro, e da una logica fatta di sacrificio del proprio tempo in nome della carriera, e di un’ambizione che costringe a vivere costantemente proiettati nel futuro, nel prossimo step funzionale al successo, mentre nel “qui e ora” non facciamo mai quello che sarebbe giusto per noi.

E ancora la domanda è

A chi serviamo quando ci dedichiamo alla promessa della carriera? 

Non a noi stessi se il nostro lavoro è determinato soltanto dalla necessità economica di portare a casa uno stipendio o dalla pressione sociale che ci impone di raggiungere una posizione adeguata alle aspettative nostre o di chi ci circonda. Ma nemmeno agli altri e al mondo, se il risultato di tanti processi produttivi – materiali o intellettuali – è soltanto «aria fritta» – così definisce Alix Faßmann le sue mansioni alla SPD – o spesso addirittura nocivo.

Non rifiutano il lavoro in se

Questo nuovo filone di pensiero non vuole rifiutare il lavoro in se ma solo soltanto quello eterodiretto (un tempo si sarebbe detto alienato), non incentrato sulla realizzazione delle proprie passioni e dei propri bisogni. Gli stessi fondatori e collaboratori lavorano tanto per il centro e si arrangiano con lavori part-time di vario genere per arrivare alla fine del mese. Ma, anche se i soldi sono pochi e la fatica tanta, sono soddisfatti perché riescono a non perdere il senso di quello che fanno: contribuire a immaginare un nuovo mondo del lavoro.

Simona
Digital story agitator

 

 

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Il massimo dell’efficienza è una spremuta di uomo. Amazon docet

Vi siete mai chiesti cosa nasconde il semplice click che vi permette di ordinare un prodotto online e vederlo recapitare comodamente a casa nel giro di pochi giorni? Quello che c’è dietro è Amazon, colosso delle vendite che macina successo con una rapidità incredibile. L’apprezzamento dei clienti sembra non arrestarsi mai. Eppure, a rendere possibile un’efficienza a dir poco estrema è il sistema di organizzazione del lavoro tutt’altro che roseo.

 

All’uscita dello stabilimento Amazon di Castel San Giovanni (Piacenza), che si estende per circa 90mila metri quadri, si possono raccogliere testimonianze (anonime) estremamente illuminanti, nella loro crudezza. «Grazie a dispositivi geolocalizzabili controllano costantemente dove sei e cosa fai. Ma soprattutto, se ci metti più tempo previsto a svolgere un qualche compito, il dispositivo comincia a suonare». «I primi giorni ero inevitabilmente un po’ lento, e quindi mi hanno ripreso quasi subito. Mi son dovuto abituare ad andare molto veloce, come una macchina. A fine turno spesso non mi sento più le gambe». «Oggi ho lavorato 148 pacchi in un’ora. Correvo come un pazzo».

«Il clima era di puro terrore, addirittura non vedevano di buon occhio il fatto che andassimo in bagno»

 A parlare è Simone, che lavorava per il servizio Amazon Prime, la “corsia preferenziale” che consente addirittura di ricevere il pacco in una manciata di ore. L’uomo, comprensibilmente, a un certo punto non ce l’ha fatta più ed è dovuto uscire dal sistema.

Velocità, frugalità, ricerca della perfezione. Sono questi i pilastri ispiratori di Amazon. Ma a che prezzo viene pagata l’eccellenza, la soddisfazione massima delle aspettative del cliente? In realtà, il dubbio, legittimo, è che detto obiettivo sia in realtà solo la maschera di ben altri traguardi che, evidentemente, sono in cima alla lista di pensieri del colosso. Massimizzazione del profitto e omogeneizzazione del fattore umano a quello macchina. Sì, perché, colpevolizzare - in modo più o meno subdolo - il dipendente in quanto non garantisce i medesimi standard di un automa in termini di previsione del risultato adombra il desiderio/tendenza di arrivare ad espellere, prima o poi, del tutto il fattore umano dal circuito produttivo.

Non stupisce, quindi, che nel corso degli anni, si siano moltiplicate le testimonianze di “infiltrati” e le storie di lavoratori pubblicate da testate con risonanza internazionale. Nel 2013, ad esempio, il francese Jean Baptiste Malet ha raccontato la sua esperienza all’interno di Amazon nel libro En Amazonie. «Lavoravo unicamente di notte. Per la precisione, il mio turno era quello che copriva la fascia oraria tra le 21,30 e le 4,50. L’agenzia interinale aveva calcolato che camminavo più di 20 km a turno». Così scriveva il giornalista.

«La specificità di Amazon è la sua organizzazione interna - spietata con l’essere umano -, che si basa sulla sua infrastruttura informatica (terminali wi-fi sparsi un po’ ovunque, telecamere di sorveglianza), sul controllo totale della persona e della produttività. La specificità di Amazon è che la sua infrastruttura informatica, estremamente complessa, ha come obiettivo di spremere al massimo la macchina che esegue le azioni le più difficili: l’essere umano». Un quadro impietoso nella sua essenzialità, quello tracciato da Jean Baptiste Malet.

Successivamente è stato il New York Times a fare il punto della situazione, aggiungendo altri elementi inquietanti al quadro

I dipendenti, sollecitati a essere “radicalmente” diretti nel valutare i risultati conseguiti dai colleghi, vengono messi in una tale condizione di sudditanza psicologica, che accettano di non avere un orario di lavoro fisso e addirittura di arrivare a coprire turni per un totale di 80 ore settimanali. «Ero così presa dall'idea di avere successo. Per quelli che lavoravano lì era come una droga. Una volta non ho dormito per quattro giorni consecutivi e ho continuato a fare il mio dovere». Questa la testimonianza resa al giornale da Dina Vaccari, dipendente nel 2008.

«Ho subito un aborto, è stato uno degli eventi più devastanti della mia vita. Ma mi hanno messa nel programma per migliorare le prestazioni per assicurarsi che la mia attenzione continuasse ad essere focalizzata sul lavoro». Così un’altra impiegata.

«Credo fermamente che chi lavora in una società che è davvero come quella descritta dal New York Times sarebbe pazzo a rimanere. Io la lascerei». Con queste parole ha provato a metterci una pezza il fondatore di Amazon, Jeff Bezos. Ovviamente, senza ottenere grandi risultati. 

 
 

 

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