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Non tutti i musulmani sono cattivi

Trasformare l’odio in energia positiva.

Susan Carland, docente alla Monash University di Melbourne, ha scelto di trasmettere al mondo tale messaggio.  Troppe volte è stata negativamente etichettata sui social per la sua fede islamica.  I  tweet di disprezzo che quotidianamente riceveva sul profilo, dopo i recenti avvenimenti parigini, sono spaventosamente aumentati.  La giovane professoressa ha così trovato il suo antidoto al risentimento: donare un dollaro a Unicef per ogni insulto ricevuto. Una soluzione pacifica e intelligente per reagire alla spirale di crudeltà che si può innescare di fronte a eventi come gli attentati del 13 novembre.
 
«Ricevo giornalmente messaggi, sia su Twitter che su Facebook, da parte di “coraggiosi sostenitori della libertà” che si nascondono dietro a account anonimi, in cui vengo accusata di amare l'oppressione, la guerra e il sessismo » ha raccontato la Carland. «Mi dicono che devo andare via dall'Australia, che devo morire, che sono una jihadista».
 

La caritatevole insegnante è in realtà una fervente sostenitrice dei diritti delle donne; viene infatti frequentemente invitata
 dai canali di informazione mondiali a parlare dei suoi studi sul rapporto tra  Islam e femminismo. Il marito, Waleseed Aly, è anch’egli una sorta di celebrità. Presentatore, maestro e dottore in Legge, copre eventi di attualità che spaziano dalla politica, al divertimento allo sport. Ci si riferisce spesso a questa giovane coppia come ai “Brangelina” musulmani: giovani , belli e interessati ai temi sociali. Eppure sono entrambi oggetto di astio da parte della comunità musulmana-australiana per non essersi dimostrati degni rappresentanti  delle diverse etnie islamiche presenti nel Paese. Carica che peraltro nessuno dei due si era mai  assunto. Nonostante le loro lotte sociali, ancora ricevono lettere di odio da chi non è d’accordo con le loro opinioni. Contemporaneamente sono guardati con sospetto dai cittadini d’oltreoceano proprio perché appartenenti a tale religione.
 
La conversione all’Islam non è mai stata un’imposizione per Susan, ma ha rappresentato una scelta. « A diciassette anni ho iniziato a studiare le diverse religioni. Quella musulmana la ritenevo sempre molto violenta, ma perché la mia conoscenza si limitava alle cose che avevo sentito nei film o che i media ci avevano raccontato. Un giorno in tv veniva trasmesso un documentario sull’argomento. Questo programma mi ha spinto a documentarmi. Pian piano, conoscendo di più tale fede, mi sono accorta che è la religione dell’amicizia e della pace. La cosa più importante era il fatto che i suoi insegnamenti, al contrario del Cristianesimo, parlavano di un Dio unico e non di una Trinità».
 
Susan  ha affrontato molte difficoltà e ha perso quasi tutti i suoi amici decidendo di credere in Allah.  E la sua  battaglia non è ancora finita. 
 
Tramite la sua iniziativa di raccolta  ha finora accumulato mille dollari, ma la somma andrà probabilmente a crescere. « La maggior parte degli utenti che mi attaccano sono uomini.  Persone infelici: la gente serena non fa queste cose».
 
 
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A colpi di tweet e kalashnikov: l'Isis e la comunicazione del terrore

«Twitto quanti ne ho uccisi e ricomincio». 

Immagino il terrorista che posa il fucile,  digita #Parigiinfiamme e riparte con il massacro. Chiedo venia, ma l'ironia mi è sempre sembrata l'unica via per affrontare i mali del mondo, anche se qualcuno afferma che sia impossibile scherzare di fronte a certi eventi.  Ma in fondo, come dicevano gli antichi greci (che sull'umanità la sapevano lunga), la comicità è un'altra faccia della tragedia.
 
I fatti del 13 novembre non credo verranno dimenticati facilmente. La freddezza e la coordinazione di esecuzione dell'ISIS durante gli attentati di Parigi ha dello straordinario nella sua malvagità. Ma, fra tutte le domande che mi sono posta,  mi sono interrogata su come sia possibile l'utilizzo smodato dei social per diffondere i propri macabri contenuti. Grazie al grande potere della rete,  è realistico risalire all'identità dei fondamentalisti? Dove abitano? Quali tecniche utilizzano per diffondere i loro messaggi sul web?
Ma soprattutto: come mai i loro sadici profili  “cinguettano” ancora?
 
Ho dunque  iniziato la mia ricerca  online per capire, in mezzo al dolore e allo sgomento, se qualcuno si era mai posto i miei stessi interrogativi. Ho scoperto che due ricercatori della  Brooking Institutions, J. M. Berger e Johnatan Morgan, hanno pubblicato lo studio The Isis Twitter Census. I due autori con quest'opera cercano di dare  una spiegazione ai quesiti sopra citati.
 
Le cifre? Oltre 133 tweet da parte di 46mila profili, di cui oltre 1.500 condividono più di 50 contenuti pro-jihad. Questa la potenza del fondamentalismo sul popolare social network. Il sostenitore tipo? Sette tweet al giorno, in tre quarti dei casi in arabo ( e in uno su cinque in inglese) che raggiungono in media 1004 followers.
 
Il proliferare di argomenti violenti è però garantito da uno zoccolo duro di  circa 2000 utenti. Sono i cosiddetti mujtahidun: le loro eruzioni rapide e continue di tweet rende virale il materiale condiviso. Spesso le frasi, i video, le immagini vengono presi e ripostati da utenti con meno follower. Chiaramente ognuno è dotato di account diversi, così da far fronte alle sospensioni imposte dai gestori della piattaforma.
 
Dunque non sarebbe possibile, con accurati studi, capire come trovare i potenziali terroristi? Non è così semplice. La geo-localizzazione viene infatti attivata o disattivata a piacimento dell'iscritto. Twitter sta combattendo da mesi un conflitto cibernetico con i miliziani del Califfato, per contrastare l'enorme diffusione degli individui pro-ISIS. Ma i supporter dell'organizzazione aprono account multipli o ripristinano quelli chiusi con altri nomi. Il dato preoccupante è che l'utenza dei sostenitori è triplicata nell'ultimo anno.
 
La sospensione dei profili sta avendo effetti concreti nel limitare le possibilità e la portata delle attività dell' ISIS sui social media. Adesso il 10% del traffico jahdista è dedicato  a ricostruire i network spezzati anziché alla propaganda.
 Purtroppo non ci si può certo aspettare che i contatti vengano del tutto eliminati. Lo scopo dell'operazione non è infatti l'interdizione totale, ma diminuire la diffusione delle ideologie terroriste.
 
L’ISIS vive di comunicazione. Ciò che impressiona non è solo la capacità di usare i media ma l'avere una strategia articolata fatta di prodotti  diversi per differenti destinatari. Non solo tweet, ma anche video, brochure per le famiglie dei foreign fighters, addirittura giochi per playstation per avvicinare all'ideologia noi occidentalii.
 
Una follia figlia del nostro tempo, una guerra parallela scissa tra realtà e mondo virtuale. Credo che non sia il momento di esprimere opinioni frettolose. Ma riconoscere il valore del silenzio per cercare di capire cosa realmente sta accadendo da venticinque anni a questa parte.
 
 
Dichiarazione  di poche ore fa di Anonymous, una delle più famose organizzazioni di hackeraggio, contro l'Isis:
 
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Io, straniero di qualcun altro

«Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Molti puzzano perché tengono lo stesso vestito per settimane. Si costruiscono baracche nelle periferie. Quando riescono a avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano in due e cercano una stanza con uso cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Parlano lingue incomprensibili, forse dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l'elemosina; spesso davanti alle chiese donne e uomini anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano sia perché poco attraenti e selvatici, sia perché è voce diffusa di stupri consumati quando le donne tornano dal lavoro. I governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, di attività criminali». 
 
Rumeni? Siriani? Africani? Non proprio. Il testo è tratto da una relazione dell'Ispettorato per l'Immigrazione del Congresso americano sugli italiani negli Stati Uniti, ottobre 1912.
 
I Salvini della situazione forse dimenticano chi eravamo. Anche noi, poco più di un secolo fa, apparivamo come  la piaga degli americani. Gli stessi che oggi ci adorano e che non potrebbero fare a meno del nostro cibo.
 
Siamo sempre bravi a etichettare e sputare sentenze. I The Jackal, sull’onda lunga del precedente video Domande degli italiani agli americani, vogliono ribaltare la prospettiva, dando  la parola agli stranieri che vivono nel nostro Paese.
 
«Ma perché ci chiamate di colore se siamo neri? E perché i ragazzi si tolgono le sopracciglia?». Si va dalle domande più ludiche a quelle più serie, in questa intervista al contrario in cui i migranti ci chiedono spiegazioni sulle nostre stranezze.
Il video ci ricorda che prima di tutto siamo persone e che ogni cultura ha le sue particolarità. Ma soprattutto che saremo sempre lo straniero di qualcun altro.
 
 

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