mentalità vincente

Allena il pensiero strategico ☝

Che reclusione! Sarà perché scappiamo!

Che dici, ce ne andiamo?

Ogni tanto questa realtà va fugata. Subito tutt’intorno diventa un fuggi fuggi disordinato e precipitoso.  Una toccata e fuga di qua, un mordi e fuggi di là, un amore che vinci se fuggi, scappiamo insieme e così via. Ma sì, il modo è crudele, questa vita è un inferno, la società fa schifo, la politica è solo un gran ‘magna magna’, la disoccupazione giovanile è un vero dramma, ecc… Effettivamente, di motivi per darsela a gambe ce ne sarebbero a iosa. Se le cose stanno così, legittima e doverosa è un’evasione (quella fiscale nel nostro paese è esponenziale e mirabile) personale verso la libertà.

Il rifiuto di questa realtà, insostenibile e inaccettabile, è una vera prigionia che porta all’esasperazione nella fuga. Il mondo fuori, è troppo diverso e inaccettabile. Non è come lo voglio, mi schiaccia e m’intrappola. Nulla è come dovrebbe. E quanta insofferenza, disagio e inibizione nel fuggitivo. Lo scontro con troppa diversità lo fa scappare. Non ce la fa! Capitemi, non voglio dire che restare prigionieri in gabbia sia la scelta migliore! Cerco solo di comprendere, mi auguro senza ripetere cose già dette da altri, come forse, alle volte, la strategia dell’alzare i tacchi non sia poi la migliore o la più auspicabile perché trafuga invece illusori sogni di libertà.

Scappa chi fugge

Si fugge per rigetto, per incapacità di tollerare o far fronte alla situazione, per sopravvivenza (giustamente) anche se spesso la fuga, più che una buona strategia, volta al recupero delle forze e alla ricerca di soluzioni migliori, sfocia in una perdita esistenziale, una mancanza di vita che non accresce. Non ce la faccio? Bene, scappo! Non mi piace? Scappo! Non lo voglio? ecc… La tolleranza alla frustrazione è pari a zero, l’attitudine a mettersi in gioco, praticamente nulla. Qualcosa mi sta creando un problema che non riesco a gestire. Ok, scappo! Eppure fuggire, alla lunga, mi porterà a rinunciare a troppe cose nella vita. Se scappo da tutto, non c’è via di fuga!
 
Fugace andirivieni

Nella sua cella, il carcerato, molto spesso carceriere di se stesso, generalmente è solo, talvolta in compagnia. L’evasione dalla condizione che non sostiene più, non è in sé sbagliata, ma di certo non è liberatoria come crede. Qualcosa sempre gli sfugge. è umano. Un aspetto non notato, una disattenzione, una sottigliezza, una piccola o grande verità. Mi è sfuggito qualcosa? E rieccoci di nuovo, con il necessario e inevitabile incontro con la realtà, della quale, un aspetto è rimasto sfuggente. Ecco che per fugare ogni dubbio e accertarsi, gli tocca tornare sui suoi passi, e seguire le tracce furtive che ha lasciato. Così il prigioniero è costretto dallo scappare, al tornare.

L’attimo sfuggente

 

Diciamo anche che c’è una bella differenza tra l’andarsene (verso, allontanamento), e il venire (da, avvicinamento).  Così come sfuggire non è fuggire. Di mezzo c’è un movimento consapevole. Nel venire via (generalmente da) è in atto un evitare il dolore, o uno schivare un pericolo che salva la vita perché ci sottrae al potenziale danno. Dunque c’è una funzione istintiva e protettiva, in quanto, siamo sfuggiti a quell’attimo in cui, il peggio poteva accadere.

Mettersi in fuga verso un rifugio sicuro

Nella corsa precipitosa e disperata abbiamo impresso tracce e impronte che ci aiuteranno a ripercorrere la strada del ritorno. Andare via richiede il saper stare sulle proprie gambe, in modo tale da essere autonomi e indipendenti, sennò diventa parecchio difficile l’alzare i tacchi (e chi porta scarpe basse?). Ma qualcosa, come al solito, non mi quadra. Come si fa a tagliare la corda, e poi filarsela? La strategia da mettere in atto mi sembra aberrante. Ok. Sorvoliamo.

Aspettate! Vedo in lontananza un branco di rifugiati, rifuggenti di piacere e dolore, che stanno tornando indietro sui propri passi. Rapiti dal tempo stesso che fugge e passa inesorabile (tempus fugit), loro come il vento, hanno fugato le nuvole e dissipate incertezze, preoccupazioni e paure.  Hanno messo in fuga il nemico interiore, a caccia di se stessi. Alcuni sono tornati a quella realtà che tanto rifiutavano, la cui diversità ora vedono come elemento positivo che li differenzia dal resto. Altri, hanno saputo costruire valide alternative per dare corpo e possibilità a un nuovo reale da costruirsi differentemente. Entrambi, ora, hanno fatto di ostacoli, limiti e paure, un rifugio che li ha messi al riparo dall’allontanarsi troppo da se stessi, e li ha condotti alla conoscenza di sé nelle difficoltà.
 
F(r)uga nella realtà!
Nessun cervello trafugato, nessun bacio rubato, nessun attimo sfuggito. Nulla che si non voglia, è stato sottratto segretamente. Tutto è sempre stato qui. La realtà non scappa mai da te, sei tu che scappi da lei. L’amore non ti corre dietro come un ricercato, né t’insegue come un fuggitivo. Fermati e guardati intorno. Allora, cosa c’è? Quello che è autentico e vale, nella tua vita rimane, così come chi ti ama, non scappa, e non scompare. Sfuggi pure se vuoi, ma resta sempre con te. Ne vale la gioia. Chi vuole esserci, poi, c’è.
 

di Laura Pugliese

 

 
 
 
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A(r)miamoci e partiamo! Vite corazzate

Un. Due. Tre. Fante, cavallo e re!

Questa vita è una guerra. Tutti i giorni una lotta. Ogni mattina arcieri, scudieri, spadaccini, artiglieri, fanti, cavalli e cavalieri si armano e partono, ciascuno per il suo fronte.  Agghindate con proprie uniformi e stemmi araldici che ne decantano il valore, le truppe avanzano nella marcia quotidiana. In guardia! Fatti sotto o fatti avanti! Quello che dico potrà sembravi alquanto anacronistico e poco sensato. Dove voglio arrivare? Insomma sembra che devi difenderti dalla vita tutto il tempo? Con immunità emotiva, uomini e donne di ferro si sfidano e si affrontano su diversi campi di battaglia, scevri da qualsiasi timore e sentimento. Quante eroiche gesta quotidiane! Avanti alle lotte per il posto di lavoro, per il parcheggio, per la fila alla posta, al supermercato, agli istituti previdenziali o sindacali. E poi, via al conteggio dei morti e feriti.

La ‘corazza caratteriale’

D’altronde, mica si può avanzare nella vita a mani basse! Mille ostacoli e frustrazioni ci obbligano a tenere alta la guardia, e questo è in parte pure giusto. Sviluppare un adeguato meccanismo di difesa all’ambiente è un processo innato e insito nella natura umana. Un sano istinto di protezione e salva-guardia di se stessi fa bene e ci vuole. Tocca tutelarsi in qualche modo se vogliamo sopravvivere. O era vivere? Ad ogni modo, per mantenere un equilibrio psichico bisogna armarsi di santa ragione. Esiste poi, una corrispondenza tra i processi psichici e quelli somatici. La corazza che ciascuno indossa è anche e, soprattutto, caratteriale (corazza caratteriale, A.Lowen) perché plasmata sui tratti della personalità.

Un’emotività d’acciaio in un ‘corpo corazzato’

La corazza (dal latino coriaceus, cuoio) è davvero il simbolo di quanto coriacea sia stata la resistenza di ognuno alle sfide della vita. Tutti viviamo e sperimentiamo sulla nostra pelle. All’origine la corazza era un indumento protettivo per difendere il busto del soldato, da danni intenzionali o casuali. Elemento costitutivo dell’armatura, foggiato prima in pelli, poi cuoio e osso, fino al bronzo e acciaio. E un’emotività d’acciaio si nasconde dentro i due pezzi costitutivi della corazza. Un pettorale anteriore che limita l’attacco e il ‘colpo al cuore’, mentre lo schienale protegge dalle ‘pugnalate alle spalle’. Nel tempo la sua modellazione si plasma sempre più sull’anatomia umana sulla quale non solo si appoggia, ma ne veste l’anima. Ed ecco le armature a maglie del primo Medioevo e quelle a piastre nel tardo periodo. Pensate che dopo il 16˚ secolo, la corazza era usata anche nelle giostre come elemento decorativo di ‘corpi speciali’. Oggi c’è il giubbetto antiproiettile, amabilmente indossabile a ogni stagione per arginare gli attacchi del quotidiano.

A(r)ma e disarma

E se, è sulla tua pelle che ti fai le ossa, è giusto dotarsi di un riparo, un guscio, un dermascheletro come quello di una tartaruga, che protegga il corpo e l’anima. Alzare una difesa psicologica impenetrabile, adottare una resistenza inattaccabile e approntare una prontezza inossidabile, sono passaggi di grado necessari alla conquista di medaglie al valore. Nulla che spaventa, intimorisce, o scuote più. Forti e saldi e tutti di un pezzo con il cuore sigillato. Niente che smonti la guardia. La paura non entra, la tristezza è nulla, la sofferenza è sconfitta per sempre. Quanta gloria e onore! La vita è vinta e si è fatta asettica. E così, bardati in queste armature, camuffiamo le nostre esistenze dentro grottesche gabbie che, altro non sono, se non la parodia di noi stessi. Ingigantiti nei difetti e nelle fragilità, competiamo ancora, portando in giro l’anima che cresce a dismisura nella sua profondità, rispetto all’impalcatura esteriore che ci protegge ma che arresta l’evoluzione.

Smonta la guardia, una crepa che fa luce

Ma la vita, da dentro, scalpita, recalcitra e chiede libertà. Spinge per uscire fuori e venire allo scoperto. Una speranza c’è ancora. Si dice che ci sia una crepa in ogni cosa e che la luce entri da lì. Se il carattere, insistentemente, comanda e arma, può esserci qualcosa che disarma? Disarmanti sopravvivono Bellezza, Giustizia e Bontà. Non è una nostalgica e patetica celebrazione di nobili ideali e buoni valori ai quali prestare fede cieca. Sono le uniche forze necessarie di crepa e rottura. Il disarmo non è semplice come si potrebbe credere, ci vuole qualcosa di altrettanto potente.

‘Quanto dolore hai pagato per quella bellissima armatura che indossi?’

Se armarsi fino a questo punto è costato molto caro, di certo smontarsi non sarà da meno. Decostruirsi pezzo dopo pezzo è un’opera (sacrificale) di liberazione e rinascita che sveste e alleggerisce anima e cuore. Dentro e fuori l’amore ti bersaglia. Apri degli spiragli che lasciano entrare luce e calore. Il dolore è necessario per esprimere e comunicare gli stati interiori soffocati, ai quali non è stata data voce. A tutti, prima o poi, tocca un giro di giostra. Se hai permesso alla tua anima di essere lubrificata, se hai cosparso il tuo cuore del giusto balsamo, allora non sei più un uomo o una donna di latta, che s’inceppa di tanto in tanto, prima di salire a cavallo. Ricordati che tutto scorre, tutto è energia. Come pensi di fluire se non ti spogli di questa bellissima armatura che hai pagato tanto cara?

di Laura Pugliese

 
 
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Ominide e Donnaccia. Chi a caccia e chi in cucina. Breve storia del focolare domestico

Nulla da mangiare
Quello che sto per dirvi non ha fondamento scientifico né validità empirica. Siete altamente autorizzati a non leggerlo. Racconta una possibile storia, tra le tante assurde favole tra il comico e il grottesco, che narra di noi donnette e voi, omuncoli, entrambi divertenti esperimenti dell’Universo su questa Terra. L’inizio è epico, favolistico, come vuole la tradizione. Sul perché l’uomo non trova mai nulla nel frigorifero.  Andiamo a cominciare…
 
Cip&Ciop

C’era una volta una coppia di amici, Cip&Ciop, due neuroni che abitavano la materia grigia di un uomo qualunque, rappresentativo del genere maschile, Ominide. Cip&Ciop correvano sull’unica rotella che Ominide possedeva e in questo gioco di corsa, a un certo punto, Cip disse all'altro "caspita! Non ci vedo più dalla fame!". Accecato dall’appetito, si scontrò, involontariamente, contro l’amichetto e arrestò così l’unico moto rotatorio che fungeva da attività cognitiva di Ominide.

La fame muta di Ominide

La fame di uno, devastò anche l’altro e con sé la facoltà intellettiva di Ominide che, ammutolito, cadde in ginocchio innanzi al frigorifero. Con le fauci spalancate, nella vana ricerca di qualsiasi cosa da mettere sotto i denti, Ominide fu colpito, accecato dal bagliore di un neon che illuminava le insondabili profondità di un frigovuoto! Niente, manco un uovo sbatutto. Rimase così per giorni…

Il terzo giorno Cip decise di compiere uno sforzo e recarsi al mercato a fare la spesa, mentre Ciop restava a guardia del frigo e del povero deficiente, ancora in ginocchio. Un miserabile, abbandonato a se stesso, nel freddo di un focolare domestico disabitato e che più non scalda. Ma com’è potuto succedere?

Donnetta&Donnaccia

Nel frattempo Donnetta, si era affermata, arrampicatasi sul gradino più alto della scala sociale dell’emancipazione, aveva gridato "Basta vita domestica!". Ormai il suo antico retaggio di casalinga era perduto. Donnetta si era fatta Donnaccia, affermatasi oltre la carriera, raggiunto Ominide in qualunque luogo dell’esistenza in cui lui si fosse imbattuto (quando stava solo fermo davanti al frigorifero). Effettivamente le è convenuto. Possiamo già vedere che la colpa di quanto accade non è mai solo da una parte.

Cucina con-fusion

 

Intanto il povero Cip attraversava le pericolosità di un vasto mercato culinario, dove tutto era a portata di mano, ma non per tutti, e senza nessuna pietanza. Era nel pieno della con-fusion. Nessuna vivanda ben identificabile o riconducibile a una sola tradizione. Ingredienti mischiati, ruoli scambiati, la missione da compiere era ardua. Che cosa portare da mangiare a casa?

A un certo punto, apparve in soccorso, una frotta di genti cocenti. Erano ‘travestiti’ di bianco, avvolti dai fumi e apparecchiati con stoviglie. Erano il popolo degli Chef. E via a manetta pasta di zucchero pure per la ceretta, intingoli su un’unica patatina (utilissima a sfamare un bue, Crikko&Cracco non vale un fracco!), estratti di tuberi e bacche (il torsolo e l’ortolano lo ricordate?). Era una cucina dinamica e vernacolare, tra una padellata in faccia e una sb(r)occata di sapore, un insulto e un’umiliazione gratuita, quanto carattere e sapore in ogni vivanda! Ma Cip sapeva che tutto questo ben di Dio non avrebbe mai sfamato davvero Ominide della sua ciclopica fame. Così, nel frastuono generale, si rivolse alla massa culinaria “A regà! Mo basta con queste fregnacce cavolo. Quello c’ha fame!"

Corse via lontano, attraverso i grandi padiglioni delle mode eno-gastronomiche, fu affascinato da casari, caciare, (ba)geishe del sushi mediterraneo (buono!), gratta-checcari, porchettari veg e tutte le meraviglie che la più grande Exposizione Universale potesse offrirgli. Eppure. Eppure non trovò cibo da portare al suo ritorno.

Casalinga e le altre

Donnaccia, nella sua continua istanza rivoluzionaria e polemizzante, aveva deciso che per affermarsi nuovamente, doveva tornare a ’okkupare’ le cucine un tempo abbandonate. Così disse a se stesse (plurale voluto, dato dalla psicosi multipla che investe la donna media) "Basta inseguire Ominide! Ora che siamo diventate un Vero Uomo, dobbiamo tornare in cucina!”. Tornò al focolare, ricondusse la sua vita a km zero (ovviamente in tutto ciò non sì curò di spostare Ominide da davanti al frigo). Divenne nuovamente casalinga, un tempo disperata, ora affermata. Mentre lei si costituiva in apposite federazioni a lei, dedicate (Federcasalinghe esiste davvero e non me ne voglia), diventava anche foodblogger, scriveva di cibo (ma lo cucinava?), si cimentava  all’uncinetto, era rappresentante d’istituto alla scuola dei figli (che quando educava non si sa). Girava, senza pace, per le aziende agricole locali a fare la spesa. Era insomma tornata a ricoprire il suo ruolo! Quale?! E poi, nei ritagli di tempo, in tutto questo da fare, si dava, alla maniera ‘zitta e lava’, alle faccende domestiche di un tempo.

La Val Sugana

Ma non poteva funzionare a lungo. Ominide non mangiava e Donnaccia aveva il suo patogeno da fare. Che successe allora? Andarono perduti nello scambio di ruoli e mansioni. Mentre Cip vagava, giunse a una capanna fatta di mattoni (niente sogni ma solide realtà), il comignolo sfumacchiava e dentro, il focolare era acceso. Entrò e vide il calderone. Che incanto! Trovo il crogiuolo caldo e la Nonna Valsugana che gli servi un’amorevole tazza bollente … di polenta! Fu fatto prigioniero per giorni, ingozzato allo schiatto, e lì ebbe la visione-soluzione a tutta questa carestia.

Un uccelletto non fa primavera

Cip si recò a casa, trasse Ominide via dal frigo, catturò Donnaccia e le altre identità al seguito, e andarono tutti insieme da ‘tua nonna in cariola’. Valsugana imbastì un’epopea di vivande che ristabilì la digestione dei dovuti processi. La Nonna, unica detentrice di un'antica saggezza e sapienza culinaria, fece a ognuno un dono dalla sua dispensa. Tutto tornò a posto. Presto fatto. Cotto  e mangiato, un uccelletto volò alto nel cielo, non fu la primavera, furono fagioli alla romana. E che fai scusa, non te ne mangi due?

Fine

di Laura Pugliese

 
 
Continua...

 

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